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Nacque a Villanterio, diocesi di Pavia, il 12 giugno 1910.
Compì gli studi ginnasiali e liceali nel seminario diocesano di Pavia, poi fu a Roma nel Pontificio seminario lombardo per frequentare la Pontificia Università Gregoriana.
Ordinato presbitero il 15 aprile 1933, nel 1934 si laureò in teologia con una tesi su "Magno Felice Ennodio e alcune prerogative della sede apostolica nei primi secoli", tesi poi pubblicata nel 1935.
Rientrato in diocesi fu professore di lettere nel seminario minore di Pavia e segretario del vescovo Giovanni Battista Girardi (†1942);
dopo la morte del vescovo proseguì l'insegnamento di teologia dogmatica nel seminario di Pavia di cui divenne rettore nel luglio del 1947 e contemporaneamente assistente ecclesiastico del Movimento Laureati di Azione Cattolica.
Nominato vescovo titolare di Tagaste ed ausiliare del vescovo di Mantova, monsignor Domenico Menna (†1957) il 28 ottobre 1951, venne consacrato vescovo il 9 dicembre 1951 a Pavia da monsignor Carlo Allorio, vescovo di Pavia.
Nominato coadiutore sedi datus di Mantova il 2 agosto 1952, successe al vescovo di Mantova l'8 settembre 1954.
Lì riorganizzò la curia diocesana, l'archivio diocesano e il seminario, prodigandosi per la costruzione di nuove chiese.
Promosso arcivescovo titolare di Gerpiniana e coadiutore con diritto di successione dell'arcivescovo di Bologna, cardinal Giacomo Lercaro il 16 luglio 1967, divenne per coadiuzione arcivescovo di Bologna il 12 febbraio 1968.
Creato cardinale da Papa Paolo VI il 28 aprile 1969, del titolo di San Luca a Via Prenestina, fu presidente della Conferenza Episcopale Italiana dal febbraio del 1969 al 18 maggio 1979.
Rinunciò all'arcidiocesi di Bologna l'11 febbraio 1983, e morì a Bologna il 24 settembre 1985 all'età di 75 anni.
È sepolto nella cattedrale metropolitana di Bologna.
Eravamo alla fine del 1951.
Nella diocesi accaddero dei fatti allarmanti e per i quali il vescovo non intui il bisogno di un intervento decisivo.
Nella cassa della curia vescovile si verificò un ammanco di mezzo milione di lire.
Venne accusato, ingiustamente condannato, infine dichiarato innocente, un prete tutt'altro che anonimo, dalla forte e quasi aureolata personalità, reduce dai campi di sterminio nazisti, fondatore del Comitato di liberazione mantovano: don Costante Berselli.
C'era dell'altro.
La chiesa di Ostiglia era guidata da don Gandolfi, che fini per rivelarsi una scheggia impazzita del clero.
Esisteva dunque un cono d'ombra, completato anche da altre situazioni non meno gravi, sotto il quale la diocesi pativa.
Intervenire, fare luce, riordinare, risolvere.
Per coniugare tutto ciò, Roma scelse il giovane rettore del seminario di Pavia: Antonio Poma, quarantun anni.
Lo consacrò vescovo e lo mandò a Mantova come ausiliare.
«Me lo mandano perché dicono che sono ammalato».
Questo fu l'amaro commento di Menna, che monsignor Ciro Ferrari, presidente del Capitolo della cattedrale e, allora, suo segretario particolare, ricorda benissimo.
Poma, invece, proprio a chi scrive, ricordava altrettanto bene i primi tempi del suo soggiorno mantovano, non in palazzo vescovile ma in via Corte.
Due o tre stanze davvero in precarie condizioni, con le finestre che non «tenevano» e nelle quali d'inverno era un problema ottenere un po' di caldo.
Il neovescovo prese di petto i problemi.
Per liberare Ostiglia da quel parroco, per esempio, fece intervenire i carabinieri.
«È vero - dice il noto teologo monsignor Pompeo Piva - ma cosa aveva fatto quel prete?
Era stato persino sorpreso in spiaggia in costume adamitico, una volta aveva rinchiuso suo padre nel porcile.
Insegnante in seminario, faceva lezione tenendo un piede dentro il cestino della carta».
Il caso di don Berselli fu più complicato e la soluzione passò attraverso mesi se non anni.
«Don Berselli era un duro - commenta Piva - ma fu accusato e condannato ingiustamente.
L'appunto che si può fare a Poma è che, pur avendo avuto dalla Santa Sede l'invito a ridargli un posto e una funzione in diocesi, non l'ha mai fatto.
Le ragioni possono essere diverse, ma credo che nel fondo ci fosse la paura di rimettere in circolo problemi e situazioni che si stavano risolvendo».
Un elemento psicologico giocò molto nell'agire di Poma: le scadenze di avvicinamento alla direzione della diocesi.
Prima fu ausiliare, cioè un vescovo dato in aiuto a un altro vescovo.
Poi coadiutore, un aiuto dato alla diocesi.
Il diritto canonico vede una grande differenza tra le due figure.
«Questo significa - è sempre Piva che parla - che la Santa Sede vedeva la necessità di mettere accanto al vescovo titolare una figura con dei poteri ben precisi.
Insomma si creava un governo a due».
Infine arrivò la nomina a coadiutore con diritto di successione.
A questo punto, Menna si ritirò nei suoi possedimenti bresciani e Poma diventò il settansettesimo vescovo di Mantova.
Si pensava che,raaggiunti gli obiettivi, fosse trasferito, come era consuetudine.
Non è bene che un vescovo rimanga nel posto dove aveva fatto o dovuto fare il 'poliziotto".
Invece fu lasciato a Mantova... «trascinandosi dietro - continua Piva - la fama di duro, di cattivo, che si era costruito largamente in maniera falsa».
Secondo monsignor Ferrari, il futuro cardinale agi sempre con grande coscienza.
«Che però - aggiunge - questa coscienza, specialmente all'inizio, fosse retta dal modo migliore, è discutibile».
Si può parlare, per i primi anni di episcopato mantovano, di immaturità, di inesperienza o brutto carattere, come succede in tutti coloro che hanno carattere.
«Nella guida della diocesi portò i criteri che aveva usato nel reggere il seminario di Pavia - chiarisce monsignor Ciro - e questi criteri erano scanditi in un quadro di disciplina che pretendeva arrendevole condivisione e umiltà.
Allora in seminario si insegnava più a reprimere che ad aprirsi alla comprensione.
Vedrei anche, all'inizio, una specie di immaturità politica.
Diceva: 'Io non stringerò mai la mano a un sindaco comunista!".
In seguito, cambiò parere, grazie alla saggezza che viene dallo Spirito Santo e dal buon senso».
Tra l'altro, fu accusato di non conoscere il significato della parola perdono.
«Non è affatto vero - sostiene monsignor Piva - conosco preti che non solo sono stati perdonati ma anche aiutati.
E posso assicurare che quando doveva prendere dei provvedimenti contro qualche prete, stava male, si angustiava.
Chi ha compiti di 'raddrizzamento", di 'potatura", certe volte è costretto ad assumere una faccia di inaccessibilità, che in privato non ha».
Un esempio di questo privato?
«D'estate era solito andare a trovare i ragazzi nelle colonie alpine.
Quella volta eravamo in macchina diretti a Baselga di Pinè.
Guidava monsignor Claudio Righi, il suo segretario che gli fu a fianco sino alla morte.
A un tratto, Poma si rivolse a lui: 'Sai che don Pompeo mi vuole più bene di te? Perché tu ormai non mi vuoi più bene!".
Don Claudio, e anch'io, fummo presi in contropiede.
Ci si sarebbe mai aspettati qualcosa del genere da un Poma?».
Una volta, convocò i famigliari di un prete che aveva sperimentato il suo polso duro: «Chiedo perdono - disse - mi sono comportato da carabiniere e non da padre».
Il Concilio Vaticano II (1962-1965) fu la venticinquesima ora di Antonio Poma.
Diventò più capace di capire le situazioni e di attendere l'evoluzione, meno drastico nel prendere decisioni, più comprensivo.
Lo si vide anche in quei pochi mesi, dal dicembre 1965 al settembre 1967, in cui rimase a Mantova.
«Credo - dice monsignor Piva - che, se fosse rimasto, avrebbe potuto dare il meglio di sé».
Invece, fu mandato a Bologna, dove spiccava il cardinale Lercaro, una delle figure più in vista della Chiesa italiana e universale.
E tuttavia Lercaro non godeva di totale fiducia, almeno di una parte della curia romana.
E Poma arrivò a Bologna con l'etichetta di 'correttore di Lercaro".
C'è un curioso pettegolezzo dietro l'accettazione della prestigiosa arcidiocesi: era necessario esibire a Roma un certificato di buona salute.
Ma la salute del designato arcivescovo non poteva dirsi proprio ottima.
Aveva dovuto sottoporsi a un grave intervento chirurgico.
Nessuno aveva voluto operarlo, solo il professor Eros Benedini accettò, salvandolo.
E quel certificato di 'buona salute" fu firmato proprio da lui.
Poma lasciava a Mantova segni di un 'notevole dinamismo", come dice Piva: risistemazione totale del seminario, cominciando con un nuovo corpo insegnanti (ne confermò uno solo); ristrutturazione laicale e finanziaria della diocesi; riorganizzazione della curia; nuove chiese; restauro dei sotterranei del vescovado, messi in grado di ospitare una biblioteca-archivio.
«Gli rimase tuttavia - è sempre Piva che parla - lo stigma del persecutore: certi preti furono trattati con mano ferrea e se la legarono al dito».
Alla sua partenza da Mantova, circolarono dei manifestini in cui si diceva che la diocesi era finalmente libera, che l'oppressione era finita.
Comparivano anche pesanti attacchi personali, sostenuti non solo dai preti che avevano sperimentato i suoi interventi, ma anche dai loro 'simpatizzanti", che si accodarono.
Bologna: una situazione più difficile di quella mantovana.!
Erano gli anni delle defezioni, dei seminari che si svuotavano, dei sacerdoti che contestavano o se ne andavano.
Un 'visitatore apostolico" chiuse la sua relazione cosi: 'Non possiamo celare la nostra opinione che la successione di questa personalità (Lercaro n.d.a.) si presenti, per uno stato di fatti, di situazioni, di impegni economici contratti, di iniziative avviate, estremamente difficile e impegnativa per un qualsiasi presule che non abbia doti coraggiose di radicale riforma".
Paolo VI riconobbe in Poma quelle 'doti coraggiose" e meno di due anni dopo, il 28 aprile 1969, lo creò cardinale.
Fu un concistoro storico, nel quale il papa diede la porpora a grandi personalità: Marty di Parigi, Tarançon di Madrid, Cooke di New York, Höffner di Colonia, Willebrands di Utrecht.
Paolo VI volle Poma anche presidente della Cei, la Conferenza dei vescovi italiani e per ben tre volte gli rinnovò il mandato.
«Quello che Paolo VI fece per la Chiesa universale, portandola alla fine del Concilio e facendole superare indenne, senza spaccature, il successivo lungo e difficile periodo, Poma lo fece per quella italiana», questo il parere di Piva, accompagnato da un significativo ricordo legato a un convegno di vescovi europei a Coira, nel 1969.
Poma era già il cardinale di Bologna e Piva era presente come teologo accompagnatore del vescovo monsignor Carlo Ferrari.
Dunque, da una parte un convegno di vescovi.
Dall'altra, nella stessa Coira, un raduno di ecclesiastici spretati e contestanti.
Una situazione pesante che non poté non riflettersi sui presuli, tra i quali spiccavano i cardinali Suenens del Belgio e Alfrink dell'Olanda.
Un discreto sopralluogo fatto dallo stesso Piva, aveva fotografato la situazione dei contestatori: nel grande salone di un hotel si mischiavano messe, canti, brindisi e donne.
Poma prese la parola, disse che non poteva certo approvare tale stato di cose, ma sottolineò anche che i vescovi avevano il dovere di non ignorare il problema.
Nel comunicato ufficiale, però, fu tenuto conto di quel che il cardinale Poma aveva detto.
«Due righe solo, ma era moltissimo: voleva dire che dai vescovi europei non c'era una condanna senza appello e non ci si chiudeva al dialogo».
Altri gravi inconvenienti di salute minarono l'antico vescovo di Mantova.
Il più grave, un infarto subito il 23 aprile 1982, che gli suggeri di rassegnare le dimissioni due anni prima della scadenza canonica.
Fu il suo ultimo grande gesto».
Scrisse in una lettera alla diocesi:
ABATE MONS. ADOLFO AGOSTONI
ABATE DON UGO TRERE'
ABATE DON ADOLFO LODI
ABATE MONS. ENRICO SAZZINI
ABATE CA. DON GIORGIO PAGANELLI
ABATE DON CARLO GALLERANI
ABATE DON GABRIELE STEFANI
ECON. PAST. DON PRIMO GIRONI
ECON. PAST. DON ENRICO PERI
AMM.PAST.DON ENRICO PETRUCCI
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